Dolcetti o folletti, ossia il senso di Abenobashi MahouShoutengai e la risposta di Yamaga Hiroyuki

Ultimo aggiornamento: 19 Dicembre 2023 da Amministratore


PARTE-0: un’introduzione conviviale.

Vorrei parlare del regista che personalmente considero un po’ come “il Takahata della GAiNAX”, ovvero Yamaga Hiroyuki. In effetti credo si potrebbe persino scrivere una simpatica e assai eloquente equazione di rapporto stilistico, cioè:

Takahata : Miyazaki = Yamaga : Anno

In verità per parlare di Yamaga bisognerebbe forse partire dal suo debutto cinematografico, vale a dire Ouritsu UchuuGun (ovvero La regia astronautica, un film che forse conoscete come Le ali di Honneamise), o dagli ancora precedenti e dilettantistici DAICON-III e DAICON-IV Opening Anime. In un caso o nell’altro, si tratterebbe sempre della crisi dell’idealismo formale e il contrasto con l’impulso all’azione reale, che in buona sostanza è il conflitto interiore dell’otakuzoku. La religione, il bisogno di visione e di frattura, l’immobilismo del pensiero e lo slancio vitale, il sogno dell’amore e lo stupro della vergine, qualcuno penserebbe persino a Bergman.

Ma no, non questa volta. Per parlare di Yamaga Hiroyuki, qui vorrei piuttosto dire – e per una volta sul serio – di Abenobashi MahouShoutengai. Vogliamo incominciare?

Shall we? – Yeah!

Quella sera ci trovavamo cordialmente seduti a tavola: ebbi il piacere di cenare con Yamaga Hiroyuki (e Takeda Yasuhiro) a Roma, in un ristorante che si chiama(va?) “Il Pagliaccio”, credo nel 2003, mi pare in tarda primavera o forse all’inizio dell’estate, che sincronia! Io stavo proprio per dedicarmi al doppiaggio di Abenobashi, che ai tempi era ancora recente, ma io ancora non lo conoscevo bene. Yamaga per me era “il regista di Honneamise” e Takeda era nessuno, perché io ero ignorante e stupido. Con tutto che ero così patetico, a cena ci trovammo più di un po’ a nostro agio, e i due ospiti si stupirono grandemente che ricordassi i doppiatori (giapponesi) di alcune comparse di certi loro prodotti, o sapessi di Cordwainer Smith per il Jinrui Hokan Keikaku, o di altre cosette sin troppo “otaku“. In fondo era ancora il 2003. Finì con un invito personale presso di loro che non ho mai esercitato.

Certo a pensare ora che era già quindici anni fa mi gira la testa, penso alle tre Noriko e mi viene il magone, poi però per il capodanno 2007 ad Abenobashi ci andai davvero – almeno. Del vecchio quartiere commerciale restava una sola stradina, al suo ingresso c’era ancora la vecchia insegna di “AbenoGinza”. A quel tempo credo che ormai il senso della serie l’avessi capito. Ma fu quasi un’epifania quando capii che la frase scolpita sulla base della statua lignea di Billiken, la divinità in vetta alla Tsutenkaku, non è solo, come molti credono, “THINGS AS THEY”, perché in realtà la dicitura gira su tre lati, e nel suo toto è: “THE GOD OF THINGS AS THEY OUGHT TO BE”.

(Questa è la statuetta considerata "originale", ovvero deificata, che si conserva sulla Tsutenkaku. I piedi sono consumati perché la tradizione vuole porti bene grattarli.)
Questa è la statuetta deificata che si conserva sulla Tsutenkaku.
I piedi sono consumati perché tradizione vuole che porti bene grattarli.

E dunque, come finiva il mantra onmyoudou del demonietto per Arumi e Sasshi? “Che ogni cosa esista come deve!” (Subete ga aru youni aren!).

Da cui l’epifania che dicevo. Però non ho ancora capito cosa c’entrino le porte scorrevoli d’alluminio. E qui chiudo la parte meta-otaku. Dopo i folletti, i dolcetti.

What…? C’mon!

Ritorniamo alla mia cena con la GAiNAX, AD2003. E con Yamaga Hiroyuki, che è probabilmente il regista più intellettuale che la GAiNAX abbia mai avuto, a mio dire. A mio dire di ora, però, perché quando lo ebbi dinanzi a me, a condividere il desco, non l’avrei detto, non l’avevo capito. Me misero. Come Takahata Isao, Yamaga Hiroyuki è un regista puro – non un animatore. Yamaga Hiroyuki è uno che usa l’animazione, non fa l’animazione. La differenza sta tutta lì, alla fine.

Dunque, Abenobashi MahouShoutengai.


PARTE-1: qualche cartolina sgargiante oltreché pittoresca.

Se la cultura popolare di Osaka, la sua estetica, potrebbe forse riassumersi nel termine “appariscente, vistoso, pacchiano” (ovvero: hade, 派手), direi che la cosa è ancor più vera ed evidente nella sua parte centro-meridionale, che è il nucleo più antico e tradizionale della città. Andando verso sud del centro urbano si trova anche un particolare quartiere realmente moderno, ovvero già vetusto, insomma proprio retrofuturistico, che si chiama ShinSekai – letteralmente “nuovo mondo” (sì, fa pensare anche a “NEO·GEO”). Qui è situata la torre simbolo di Osaka, ovvero la Torre Tsutenkaku, all’ultimo piano della quale è contenuto il sacrario di Billiken, “il dio delle cose come devono essere“. Nato e cresciuto con lo sguardo proiettato verso il radioso avvenire, ShinSekai è oggi un pittoresco sobborgo d’intenso stampo yakuza, che vanta sale giochi vecchie con giochi vecchi, sale da pachinko vecchie, sale da gioco più o meno d’azzardo ma molto vecchio, cinema porno vecchi con film porno vecchi, negozi e ristoranti vecchi. Alcuni dei quali sono anche celebri: soprattutto Zubora-ya (lett: “negozio sciattone”), famoso per il “tecchiri” (prelibatezza di fugu, ossia pesce palla – che è anche il simbolo e la caratteristica insegna dell’esercizio), nonché i tradizionali “kushikatsu“, spiedini di frittura varia da intingersi in vasetti di salsa lerci e condivisi. Lì vicino per qualche tempo avevano aperto anche un parco dei divertimenti urbano che si chiamava FESTIVAL GATE, e che fu un tentativo di riqualificazione della zona, ma il tentativo ben presto fallì. Nel 2007 (ma il 3 gennaio, eh!) era già chiuso, ma dai piano alto della Tsutenkaku se ne scorgevano ancora bene le aree in smantellamento. Oh brave new world!

Lì vicino c’è poi il tempio Shitennouji (Shi-Ten[n]-Ou come “i tetrarchi divini”, per chi ama Final Fantasy 4 che avevo da poco adattato io stesso in versione “Advance”), e sempre lì vicino c’è anche lo zoo di Osaka (zoo = doubutsuen, ovvero “giardino degli animali”, ma “animale” in giapponese è “doubutsu“, ovvero “cosa che si muove”, letteralmente). Anche laggiù bisogna andare, e vedere una iena che gira impazzita in una gabbia 2x2m accanto a una bella targhetta “approved by WWF” che fa fiero sfoggio di sé, e bisogna vedere le didascalie divulgative tutte in dialetto di Osaka, e sentire l’audio-animatrone scrostato di una Biancaneve BIONDA che parla pure lei in dialetto di Osaka, e così forse si inizia a capire come mai Tezuka Osamu realizzò Jungle Taitei, un po’ come vedendo il Takarazuka Kagekidan si capisce qualcosa di Ribbon no Kishi. Tutto bene.

Shiten'ouji e zoo visti dalla Tsutenkaku
Shitennouji e zoo di Osaka visti dalla Tsutenkaku

A sud dello zoo c’è il sobborgo chiamato “DoubutsuEn-mae“, ovvero “Dinanzi alla Zoo”, in realtà un sottopassaggio di un grosso nodo ferroviario urbano. Le stazioni vicino agli zoo devono portare davvero male, come Christiane F. ben sa, perché anche qui l’area è zona di spaccio, transessuali di strada, prostituzione e delinquenza affiliata.

L'ultima viuzza rimasta dell'Abe no Ginza
L’ultima viuzza che era rimasta dell’Abeno-Ginza

Andando oltre c’è la zona che prende il nome dal “ponte Abeno ” (“Abeno-Bashi“), ovvero il quartiere Abenobashi (“Abeno-Bashi” = Ponte Abeno). Forse però bisogna dire che “c’era”. Oggi vi si trova l’edificio residenziale più alto del Giappone, dove è situato anche un centro commerciale gigantesco, il tutto sotto il nome di Abeno Harukas. Il quartiere Abenobashi era un rione vecchiotto già all’inizio del “nuovo” millennio, e nel 2006-2007 era in piena fase di ristrutturazione, per riqualificazione urbana. In pratica era un enorme cantiere. Nella zona, oltre all’omonima stazione ferroviaria, c’era un vecchio quartierino commerciale di tipico stampo Shouwa, ossia fatto di viuzze rigorosamente coperte a mo’ di gallerie e fitte di piccole attività a conduzione familiare. Quando ci sono arrivato ne restava, come dicevo, una sola strada laterale, con ancora l’insegna Abeno-Ginza. Poi, andando ancora più a sud si trova un altro quartiere subito successivo, che è più grande (in effetti in questo caso si tratta di un vero e proprio distretto urbano) e si chiama invece Abenosuji (“Abeno-Suji” = “direttrice, linea Abeno”). In quest’ultimo distretto è situato anche un tempietto piccolo piccolo incastonato tra i palazzi chiamato Abe-no-Seimei-Jinja, il Tempio Abe-noSeimei, che è un tempietto shinto dedicato ad Abe-no-Seimei, una figura storica risalente all’epoca Heian.

Abe-no-Seimei fu un onmyouji di corte, ovvero un divinatore ufficiale, un chiaroveggente, un magus, un astrologo, un esorcista e per i tempi uno “scienziato”. Potremmo dire che l’onmyoudou (“la via dell’onmyou“) era un po’ come l’alchimia orientale, ai tempi, e dico “orientale” perché ai tempi quanto di colto c’era in Giappone aveva radici cinesi.

E ci sono arrivato, al tempietto di Abe-no-Seimei. Per trovarlo impiegai non so quanto, fu quasi un pellegrinaggio nel pellegrinaggio, una sorta di caccia al tesoro, o una piccola quest. Non lo conosceva nessuno o quasi, in genere bisognava puntare sui vecchietti per avere qualche speranza di ricevere un’indicazione vagamente corretta. Però, se avete visto la serie animata da cui il titolo di questo articolo, più o meno avete visto anche voi tutti i luoghi che ho sin qui citato. Precisamente riprodotti. In compenso, allo zoo, un bimbo d’età prescolare era dinanzi ai leoni ma guardava me con gli occhi strabuzzati. Il padre, giovane, era imbarazzato e non sapeva che dire. La madre, più indietro e con l’altro neonato sul petto, era interdetta e attendeva l’evolvere degli eventi. Rompo il silenzio parlando in giapponese (un po’ stentato), tra lo stupore generale: “heh, kekkyoku… ichiban henna doubutsu ha, gaijin da.” (“Alla fine, l’animale più strano di tutti è lo straniero”). Il papà ride, la madre tira un sospiro di sollievo, tutto il mondo è paese. Ma ognuno è del paese suo. Soprattutto a Osaka sud.


PARTE-2: ricominciando le danze dal vero.

Rischio di sembrare pedante, in verità temo di finire per esserlo sempre o quasi sempre. Ma magari provate a seguirmi. Potrebbe valerne la pena. Non so se sarà possibile. Ma dicevo di Yamaga come del “Takahata della GAiNAX”. Realismo disegnato come pseudosurrealismo. Anche la più fantasiosa delle rappresentazioni come simbolismo, allegoria della realtà umana. Per esprimere un concetto, veicolare un’idea autoriale. Quindi per capire Abenobashi MahouShoutengai, il significato dell’anime, bisogna partire dalla sensazione del vero Abenobashi Shoutengai – il quartiere commerciale Abenobashi. Un luogo, un tempo, un senso. E qui vi giuro, vi giuro con tutto il cuore in putrefazione che ho, che prima di mettere piede, e poi tornare, e tornare più di qualche volta in questi luoghi io non riuscivo a cogliere niente. Magari è una cosa tutta mia, sono lento io, sono tardo io, mentre voialtri che leggete (?) siete in gamba e lesti di cervello e sensibili di sentimento, ma io davvero percepivo poco e nulla. Diceva Nabokov che non si può capire Joyce senza essere stati a Dublino, e solo ora capisco davvero, infatti.

La sigla d’apertura di Abenobashi MahouShoutengai credo sia al 99%, se non proprio al 100%, fatta con immagini rimontate del primo episodio della serie. Un rimescolamento. E chi se ne importa? Non staremo mica qui a fare i critici della tecnica di un cartone animato, vero? No, infatti. A chi mai dovrebbe importare, in un mondo di persone sane di mente? Solo, quell’episodio è uno schianto, e quella sigla è uno schiaffo. In molti sensi che vorrei farvi cogliere – qualora già non ci foste riusciti da soli, e allora forse dovreste voi illuminare me su così tante cose, ma davvero, davvero si può descrivere un sentire, una sensazione? Una sensazione la si prova. Se la si traduce in parole, o chi le ascolta conosce già la sensazione, perché l’ha provata, e la lettura della descrizione rievoca in lui la sensazione, oppure di certo non potrà provarla dal nulla, dall’inerte sfilza di lettere parole frasi su cui scorrono gli occhi. La fantasia non crea nulla, ricombina soltanto ciò che nell’animo di ciascuno è stato già introdotto dai sensi. La comunicazione descrittiva è un inganno, una fandonia. E allora chiamatemi pure un ingannatore, vituperatemi, ma ci proverò. Perché la fantastica sigla d’apertura di Abenobashi MahouShoutengai, intitolata appunto “dolcetti o folletti” (Treats or Goblins), parte proprio dal vero. Che poi, nella sua finzione, si trasfigura in simbolo. Ci sono i dolcetti, ci sono i folletti. Assaporatela tutta di nuovo, provate a rifarlo daccapo. Facciamolo insieme, lasciatemi condurre le danze, fatevi portare. Il vero da cui si parte sono i nostri tempi. L’epoca a noi contemporanea. La postmodernità. Oh Brave New World!

Shake it out!

L’attacco musicale è quindi quello di una canzone hip-hop, la veduta è quella dello spazio. Non quello siderale, profondo, ma subito fuori dall’atmosfera del nostro pianeta, in orbita. Uno space shuttle si staglia sulla Luna, il richiamo a 2001 A Space Odissey è forte, ma anche se questo è un cartone animato, una finzione scenica, qui stiamo approcciando una “normale” stazione orbitante: quindi ora non è una fantasticheria, è realtà. Pensateci. Così lontano, così vicino.

Ristrutturazione urbana
Sicurezza innanzitutto

Intorno ai dodici secondi la telecamera scende a terra (sulla Terra), in Giappone, e trova un terreno di costruzione. Siamo ad Abenobashi, nelle condizioni in cui si trovava nell’anno 2002 circa. Ovvero tutto “sbancato”. In ristrutturazione urbana. Un sobborgo che sembra come raso al suolo, e in effetti lo era praticamente stato davvero, dico raso al suolo, ma poco più di cinquant’anni prima – dopo la guerra, no? Bene, quindi fissiamo due punti di riferimento temporale, diciamo 1950AD • 2000AD, belli belli tondi tondi, tanto per semplicità.

A 16 secondi, per un attimo, si vede la tramvia dei trenini verdi, quella vecchia, che è quella che va a sud, verso Abenosuji, di cui dicevo. Poi per un attimo viene inquadrata la sommità della torre Tsutenkaku, di cui dicevo. Questi due elementi sono eredità del 1950AD, diciamo. (Mentre il primo episodio della serie si aprirà poi con delle immagini delle giostre del FESTIVAL GATE ancora in funzione, anche.)

Con l’attacco della cantante (sempre poliedrica, Megumi-san!), le immagini si spostano a inquadrare due bambini. Sono bimbi delle elementari, quei due. Tra i due, lei sembra forse appena un po’ più grande, il che è ovvio, perché sono coetanei e lei è la femminuccia. Quindi, 2000AD. In un battibaleno vediamo il ristorante della famiglia di lei, che è nel vecchio quartiere commerciale di Abenobashi, e vediamo il nonno di lei. Quindi, 1950AD.

Breve stacco sulla generazione di mezzo (il papà di lei), ma subito ci sono gli anziani che fanno la ginnastica mattutina al parco, come usano gli anziani. Ci sono abitudini dure a morire, e certe abitudini rendono certe generazioni coriacee, pare. Quindi: 1950AD e 2000AD. Un sole che tramonta, poi, su palazzi più recenti.

Una rapida carrellata di soggetti e soggettoni del vicinato conduce, al secondo 38, a una veduta area notturna del vecchio quartiere commerciale di Abenobashi. Un quadrato diviso in quattro angoli da “cardo e decumano” coperti a galleria. Una scacchiera piccola come un fazzoletto di terra, eh. Una cosetta di vicoletti poveracci. Il Giappone del dopoguerra era così, specie nelle periferie urbane. Ancora due cartoline da chi scrive: una delle volte che tornai a Osaka ci tornai con degli amici di Tokyo, uno dei quali a Osaka non c’era mai stato. E lui continuava a dire “aaah, Shouwa-kanjiru, Shouwa-kanjiru” (che sensazione Shouwa!). Poi invece sono andato, quasi per caso, anche a Okinawa, che mi hanno detto essere la regione giapponese col PIL più basso della nazione, e anche lì c’era questa sensazione da anni Sessanta/Settanta/Ottanta da quartieri/vie commerciali pieni di polverose attività familiari, con la vecchietta in cassa, i giovani al lavoro e i bimbi tutto il giorno a scorrazzare sulla strada dinanzi. Sotto le gallerie commerciali in stile Shouwa, ovvero vicoletti coperti con lamiera e plexiglass incrostato.

È una stradina così, quella in cui camminano Arumi e Sasshi, a 39 secondi. Poi i palazzoni un po’ più fuori mano, le nuove case popolari, o “città dormitorio” – come le chiamano in Giappone – perché siamo nel 2000AD, e la generazione dei baby-boomers ha già proliferato da un pezzo. Al secondo 46 tre generazioni a cena, con la sorella maggiore di Sasshi, di schiena. Stacco e il nonno di Arumi precipita, ma con altri veloci stacchi (occhio alla sequenza!) abbiamo Arumi che sbircia, Sasshi che si dispera, il vento che soffia al tempietto di Abe-no-Seimei, poi intorno al secondo 49 tre immagini in rapida sequenza: un pentacolo, un cartello del tempio e una sinistra statua della volpe divina Inari lì collocata. Quindi si passa su Arumi che con le mani mima le orecchie delle “volpi nordiche dell’Hokkaido“, perché poi sapremo che lei dovrebbe trasferirsi lì al nord, mentre Sasshi faceva la raccolta di figurine di animali rari del Giappone (il più raro: “il gatto selvatico di Iriomote”, ormai se ne trovano facilmente informazioni su Internet, ma al tempo no, e non sapevo neppure che “animale montano” in giapponese vuol dire “animale selvatico” per noi). Poi al secondo 54 un placido gattone obeso che muove anche lui un orecchio (sul vecchio sito della GAiNAX si parlava anche dei due gatti aziendali, non ricordo i loro nomi, ma ce li siamo ritrovati in non sapete quanti anime della ditta). Comunque è un 1-2-3 incredibile. Una giravolta di follia che attraversa mille anni, che nella narrazione si appunteranno su tre generazioni, tre mondi diversi. Wuh!

Refrain.

Si riparte dalla Tsutenkaku, il quartiere Shinsekai, al secondo 53 l’insegna pesce-palla del ristorante Zubora-ya di cui dicevo. Siamo in mezzo alle strade. Ma guardate le facce della gente in strada. Quella è realtà. Forse neppure con Takahata, così vera. E poi ricomincia tutto un ping-pong tra realtà e fantasia. Tra il nuovo e l’antico, l’aeroplano di linea sopra la città e Sasshi che gioca tra le macerie con le mattonelle vecchie, le tesserine del fondo delle vasche dell’antico bagno pubblico di famiglia, ormai demolito. E cerca, inconsciamente, come di ricomporle. Di ricomporre un pezzo, un luogo del suo passato demolito. Le tesserine di un bagno pubblico del passato, con in mezzo le formiche. Di notte, qualcuno in un vicolo pesta stizzito lattine e cartacce per terra. Ma tra una scenetta e l’altra, i due bimbi scappano istericamente. E ancora qualche memento dello scrivano: tra l’antico e il nuovo, al minuto 1:16 c’è un instante per una bottiglietta di vetro della bibita Lamune, la bottiglietta “con la pallina dentro”, mio personale (e già antiquario) feticcio infantile, da ben prima che sapessi che esistevano anche in Giappone. Pare sia un antico brevetto inglese, in realtà. Da qualche parte a Osaka mi capitò ancora di trovare in vendita “la vecchia bibita Cherio”, magari scaduta da una decade, per chi ricorda qualcosa anche di FLCL. In un negozio di giocattoli ammuffito di Shinsekai avevo trovato ancora qualche bamboletta di “alieni PinoPino”, dico quelli scesi sul mercato prima dell’angelo della magia.

Minuto 1:20, i due bimbi in fuga si fermano di colpo sbigottiti. Un mappamondo gira e frulla all’impazzata, poi si ferma di colpo: Giappone, Kansai, Osaka, il marchio del pentacolo che è il simbolo dell’onmyoudou di Abe-no-Seimei.

Yeah! – Thas’s right.

Tutto finto, ma tutto vero, eh! E le cose vere, anche quando distrutte, possono restare “nel tuo cuore”. Del tipo…


OMAKE…! (interludio musicale)

(invece "Yume no Naka he", l'originale di Inoue Yosui della cover che fa da ending a KareKano, quella si trovava già - ed è stupenda)
Il singolo dell’originale di Nakayama Chinatsu
Il singolo con la cover di Hayashibara Megumi (notare il titolo)

Eh, già… neanche questa si trovava, nel 2003. E con tutta la stima e la predilezione che ho per Hayashibara Megumi, l’originale è incredibile.


PARTE-3: la domanda.

Ovviamente, dato il titolo di questo articolo, qualcuno potrebbe giustamente chiedere: sì, ma la risposta a cosa, a che domanda?

La domanda è sempre quella. È anche la domanda che grida “io” al cuore dei mondi narrativi più intensi e sofferti creati da Anno Hideaki, ed è la domanda stessa di tutta la GAiNAX, come mi rimarcò proprio Yamaga Hiroyuki a cena: “Sì, ma questo non vale solo per Anno Hideaki, vale per tutti noi!” – mi disse esattamente così. E in effetti, il medesimo interrogativo non vale solo per la GAiNAX, ma probabilmente per un’intera generazione giapponese, quella che vide l’EXPO di Osaka’70 durante la propria infanzia. Una generazione di bambini allevati da scienza, fantascienza e diffuso consumismo in un ingenuo ottimismo per un radioso avvenire, un sogno fanciullesco che sarebbe poi stato tradito dentro di loro forse più ancora che nel loro mondo esterno. Ebbene, l’annosa (ahah!) domanda è quindi: “Come si fa a crescere in degli adulti decenti nella società postmoderna, dopo aver vissuto un’infanzia di ideali e agi e ci si affaccia a un’adultità meschina e apparentemente priva di senso e valori?”

Questo “come si fa?” non è chiesto in senso retorico, si noti bene. Non si intende come a dire: “eh, ma come si può, come si potrebbe?”. Al contrario, si tratta proprio di una domanda vera e onesta, come a chiedere: “ditemi il modo per farlo, per favore, perché vorrei farlo”.

Anno Hideaki aveva esplicitamente formulato questa domanda in altri termini proprio ai tempi di Evangelion, il cui dichiarato interrogativo d’ispirazione era: “Può un ragazzo che amava l’animazione in infanzia arrivare a 25 anni e amarla ancora?”. Certo che adesso, guardandoci intorno, sembra tanto ingenuo da far quasi ridere, eh? La marcescenza dell’animo umano è già arrivata fino alle ossa. Ma anche in mezzo al disagio psicosociale diffuso ormai al punto da essersi praticamente normalizzato, la domanda resta vibrante, anzi a ben pensarci era in fondo già datata persino nel 1995.

Perché nel 1987 anche Ouritsu UchuuGun, prima e ad oggi unica regia cinematografica di Yamaga, opera dell’effettivo debutto della GAiNAX, si chiedeva la stessa cosa, nel trasfigurare in un mondo totalmente fittizio ma del tutto simbolico lo stridente conflitto tra le opposte tendenze di omeostasi e transistasi percepite in quel microcosmo endemico che era l’otakuzoku di prima generazione. E solo l’anno dopo, nel 1988, fu proprio Anno Hideaki a debuttare alla regia con Top wo Nerae! (Punta al Top!), una miniserie OVA di “belle fanciulle e robot” che parte su toni parodistici e ridanciani, ma poi quando si piange davvero non è mai per la morte di nessuno. Ma ancor prima della GAiNAX, nel 1983, lo stesso giovanissimo nucleo di autori aveva trasfigurato la stessa bruciante malsopportazione, la stessa nausea da abulia consumistica, soprattutto nel DAICON-IV Opening Anime. L’anno successivo, nel 1984, il regista intellettuale Oshii Mamoru avrebbe messo sottosopra la chiassosa sarabanda di Uruseiyatsura per parlare al pubblico dell’animazione dello stesso paradosso sociopsicologico, nel lancinante lungometraggio Beautiful Dreamer. Lo stesso anno, l’altrettanto intellettuale duo di autori Kawamori Shouji e Mikimoto Haruhiko avrebbe consacrato al cinema la serie ChoujikuuYousai Macross, con il lungometraggio Ai Oboeteimasuka, anch’esso fantascientifico monito contro la stasi escapista del consumismo da benessere diffuso. E poi ancora nel 1988, con toni sempre più dolorosi e disperati, anche il colossale AKIRA metteva sul palcoscenico di una fantascienza ormai realmente apocalittica quello stesso strazio interiore della crescita negata, impedita, anelata, ma comunque frustrata.

Il tutto è ormai ben noto, assai indagato, persino accademicizzato dagli studi sociologici giapponesi e non solo. Ma per trovare la prima esplicita elaborazione (non scenica) di questo scenario, forse a tutt’oggi la più incisiva ed efficace, bisogna di nuovo tornare indietro del 1983. Un settore dell’intrattenimento che si scrutava allo specchio, si guardava alle spalle, e in fondo si interrogava su sé stesso: è sulle pagine della rivista di manga lolicon intitolata Manga Burikko, all’interno della rubrica di costume Tokyo Otona Club Jr. (lett: “Il club adulto di Tokyo Jr.“, versione in trasferta su Manga Burikko della fanzine locale Il Club Adulto di Tokyo), che l’allora giovane giornalista Nakamori Akio pubblica il suo provocatorio Otakuzoku no Kenkyuu (lett: “Ricerca sull’otakuzoku“). Si trattava di un ciclo di tre brevi articoli graffianti e salaci dedicati al dileggio dell’allora emergente “tribù” dei maniaci di manga e anime , che qui venivano etichettati per la prima volta “otaku“, termine che invero e in origine sarebbe un pronome personale di seconda persona, ma che proprio a partire da questi scritti si sarebbe canonizzato nell’uso sostantivale oggi diffuso persino internazionalmente. Dopo molte prevedibili polemiche sollevate dai lettori della rivista ospitante, il quarto e conclusivo articolo della serie – pubblicato a dicembre, a misteriosa firma di tal Ejisonta – si presentava infine scevro di ironica provocazione, ma quasi chirurgicamente piantato nel cuore del malato:

Noi non vogliamo diventare adulti”.

Era l’occhiello sopratitolo di un certo rinomato circolo digitale di manga, ma si potrebbe dire che questa frase esprima in modo veramente preciso l’essenza dei maniaci di manga. Maniaci dei manga, anime fan (anche se dicendo maniaci si da una sensazione parecchio pesante, mentre dicendo fan un senso quanto più di allegretto) sono delle persone parimenti predisposte per il lolicon, che non vogliono maturare per nessun motivo e che vogliono irriducibilmente rimanere fino a chissà quando in un corrente stato di moratoria.

Dunque questo era il preciso incipit dell’articolo conclusivo dell’originale “ricerca sull’otakuzoku“. Giunti ormai alla fine del 1983, la postmodernità era già arrivata a questo punto anche in Giappone. Una società che non può porre fini, non sa porre scopi alla vita delle persone. Una società senza necessità, dove non si tratta più di “consumare per vivere”, ma di “vivere per consumare”. Ma è davvero possibile? Una società che rifiuta il dolore, che rifugge il conflitto. Una società di continua sedazione. La nostra stessa società. Oh Brave New World!

E così quegli otaku di prima generazione, che raccolti sotto al nome di GAiNAX erano ufficialmente passati dal mondo del consumo a quello della creazione del loro stesso mondo, o rifugio d’escapismo, fin dai loro natali registici hanno continuato a dimenarsi dianzi alla stessa atroce domanda: ma come si fa a crescere? Come si fa a uscire dall’eterna estate? Come si fa a diventare un adulto decente?

Parecchi anni dopo, nel 2006, la stessa identica domanda la riponeva Miyazaki Gorou, figlio del già consacrato Miyazaki Hayao, con il suo primo film: l’assai acerbo e poco compreso Ged Senki. La pellicola prendeva dichiaratamente le mosse dall’epocale capolavoro giovanile di Takahata Isao, ovvero Hols no Daibouken, oltre che dai primi libri del ciclo di Earthsea, scritti da Ursula K. Le Guin, di cui si presentava come una “trasposizione animata”. Miyazaki Gorou, regista improvvisato più che esordiente, al suo debutto quasi suo malgrado, figlio d’arte della più gravosa firma del settore, dichiarò che nel famoso 1984 aveva trovato Beautiful Dreamer più significativo di Kaze no Tani no Nausicaä, altro caposaldo dell’animazione giapponese (e dell’otakuzoku), uscito proprio quello stesso anno quale prima regia realmente autoriale di Miyazaki Hayao. Ged Senki fu un film tanto significativo quanto sottovalutato, ma del resto era una pellicola dal troppo contenuto comunicativo e dal poco sollazzo estetico per il pubblico del terzo millennio, quando le sale cinematografiche si intendevano luoghi di vacuo intrattenimento, non di esercizio intellettuale. Eppure, la sceneggiatura del film, scritta da Miyazaki Gorou con tutte le lacune della sua inesperienza assoluta, venne sponsorizzata proprio da Anno Hideaki. Forse perché l’aspetto più bello di Ged Senki, tra i suoi molti lati belli, è che lì una risposta viene proposta.

Scena: c’è il protagonista Arren accasciato sul bordo di un letto. Dovrebbe muoversi, dovrebbe agire, perché è nella condizione di poter salvare le cose, solo lui in questo momento può farlo. È proprio la scena di una battaglia da uomo, ma senza cocomeri da annaffiare. Tuttavia, con un filo di voce, mortalmente depresso, Arren non trova la forza neppure di fare un passo. Non si vede, ma è “ricoperto di ferite” (kizudarake). Dell’animo, ferite dell’animo. Figlio di un padre non padrone ma sovrano in tutti i sensi, forse assente ma comunque stimato, Arren si è letteralmente dissociato sino ad accoltellare il genitore. C’è chi non ha ancora capito che ad accoltellare il re non è “l’ombra cattiva”, ma il ragazzo vero e proprio da cui l’ombra, che è la sua coscienza e non è certo “cattiva”, si è realmente distaccata. Il ragazzo è caduto preda delle tenebre dell’animo. E nella narrazione tutto questo viene detto chiaramente, spiegato persino pedantemente, quanto più didascalicamente, ma il pubblico non ascolta. Sta pensando ai draghi che non ci sono, forse. Aspetta un combattimento avvincente e spettacolare, forse. Un figlio ha accoltellato il suo pur apprezzato padre, è fuggito, vive effettualmente inseguito dalla sua coscienza fisicizzata, passando stati di alterazione allucinata. Rischia di drogarsi e poi vomita dinanzi ai drogati sedati. Viene incarcerato come schiavo per poi finire in campagna dove fa praticamente vita da comunità di recupero. Provate ad aprire la cronaca sui quotidiani, dove ci sono dei morti veri: è cronaca d’ogni giorno. Senza draghi. Senza magie. E non è un film.

Quindi in scena c’è Arren accasciato sul bordo del letto che dice “non ce la faccio, non ce la faccio”. Ed è tale e quale a Shinji in Air, solo che lì non era un letto quanto la grata di un ascensore sotteraneo, ma cambia proprio poco. Lì ci sarebbe stato uno dei più bei pezzi di dialogo scritti da Anno Hideaki, mi dispiace davvero di non averlo mai potuto adattare (nel testo e nella recitazione) per tutto il pubblico italiano – come sono presuntuoso, eh? Ma se non conoscete, o meglio se non percepite il giapponese, voi lettori quel dialogo non l’avete mai “sentito”, e non potete farlo. Quando lei (Misato) mette le mani sulle guance di lui, prima del “bacio adulto”, c’è un dialogo che è veramente un crescendo emotivo impensabile, l’estremo rivelarsi dell’animo di una donna che sta per morire senza mai essere riuscita a crescere davvero, se non forse proprio in punto di morte, in quel momento. Nel caso di Arren invece non ci sono baci, anche se lui si confronta con Therru, che nel film gioca il ruolo della sua compagna designata. Ma un bacio dopo un climax sarebbe stato troppo drammatico, troppo melenso per Gorou. Lui è più asciutto, molto più asciutto. Però il messaggio è chiaro, e una risposta c’è:

Arren: Ma se ognuno finirà un giorno col morire… la vita si potrà mai considerare preziosa…? Anche sapendo che giungerà comunque la fine… nonostante questo non si può fare a meno di vivere?

Therru: Ti sbagli! È proprio perché sappiamo che dovremo morire che la vita è così preziosa! Arren, a farti paura non è l’idea della morte… quel che ti fa paura è l’idea di vivere! Dire di poter anche morire subito… o di non voler morire per l’eternità… sono la stessa identica cosa! Tu hai solo paura di vivere l’unica vita che ti è data!

Arren: Therru…!

Therru: È soltanto per sé stessi che si vive? Io sono vissuta grazie a Tenar. Per questo io devo vivere. E vivendo, qualcun altro a seguire erediterà la vita. Lebannen!

Arren: …!

Therru: Così facendo, la vita continuerà per sempre.

Arren: Therru… come fai a conoscere il mio Vero Nome?

Therru: L’ho ricevuto da te stesso. Ti donerò anch’io il mio Vero Nome. Il mio Vero Nome è… “Tehanu”. È Tehanu.

Anche senza baci infantili o adulti – ma c’è un abbraccio, che è molto di più – Arren capirà così bene la lezione che la riproporrà, poco dopo, al cattivone:

Aracne: Paura… paura… paura… paura…

Arren: Aracne! Tu in verità sei esattamente come me! Anche tu distogliendo gli occhi dalla Luce… vedi soltanto le Tenebre!

Aracne: Non ti avvicinare…

Arren: Dimentichi il fatto che le altre persone sono il nostro prossimo…! E stai dimenticando che ne riceviamo la vita anche noi stessi! Rifiutando la morte, tu stai rinunciando alla vita!

Aracne: Non… è vero…

Arren: Avanti, apri gli occhi, Aracne…! La tua paura, è la stessa di tutti quanti!

Aracne: Non voglio…! Non voglio scomparire…!

La paura della morte, o meglio la paura dell’oblio. Della dimenticanza. L’impossibilità di concepire la propria non-esistenza. L’angoscia di Arren, come di Aracne, sono l’ansia della sazietà, dei bisogni primari soddisfatti e garantiti: in una società in cui la morte non è più un rischio concreto, una prospettiva percepita come reale, pressante, e quindi non si deve lottare per evitarla, come si può riuscire a convivere con la semplice cognizione dell’ineluttabilità della morte stessa?

Come dire: “è solo una questione di tempo… quindi che senso ha, ora?”

Anno Hideaki, che una risposta non l’ha mai data perché non l’ha mai trovata, ha sognato la Blue Water e i Super-Computer MAGI e poi persino un grosso robot che vaga nel cosmo come un’eterna arca per ingannare questa prospettiva. Raccoglitori, digitalizzatori, contenitori di anime. Vascelli di eterno transumanesimo. La mente, la psiche, la coscienza umana che non muore. Come faccio a pensare di dover morire, e soprattutto che mia madre morirà prima di me, lasciandomi tutto solo? Come posso pensare che la mia infanzia finirà, che la mia gioia finirà, che il mio rifugio finirà, e tutto il mio mondo finirà lasciandomi nudo e al freddo e tutto solo, solo, solo, finché anch’io non morirò nella solitudine?

Mille e più inganni scritti, sceneggiati, disegnati, animati e messi in scena per fuggire da queste domande, ossia dall’impossibilità di “crescere in un adulto decente”. Da un’intera generazione.

Ma a quanto pare Anno Hideaki una sua risposta non l’ha ancora trovata. Forse poi non è andato al cinema a vedere Ged Senki completato. E magari non ha mai guardato per bene neanche il finale di Abenobashi. Il che in effetti sarebbe davvero molto strano, perché la serie risale persino a prima di Ged Senki, ma soprattutto perché lo storyboard dell’ultimo, poderoso episodio l’aveva fatto proprio lui.


OMAKE…! (interludio grafico)

Sasshi sui resti dei bagni pubblici
Sasshi sui resti del “suo” bagno pubblico

Qui le cose si fanno serie: a sinistra Sasshi è all’interno del lotto di cantiere dove è stato demolito il bagno pubblico Kame-no-Yu, che era l’attività di famiglia. Lei non è entrata nell’area “vietato l’accesso”. In un moto di sfogo e disperazione, lui ha appena spruzzato acqua in aria con una pompa da lavori edili, perché con la demolizione, avvenuta mentre lui era via per il campo estivo scolastico, hanno spazzato via anche la sua amata “collezione di figurine di animali rari del Giappone”, incluso il rarissimo “Gatto montano di Iriomote”. Raccontata così fa ridere, vero? Ma pensate di tornare da una vacanza e trovate la vostra casa devastata, e la vostra preziosa collezione di qualsiasi cosa svanita: puf!

In tutto questo, non credo che Arumi capisca appieno il dramma di lui. Del resto è femmina, e anche piccina. Però credo proprio che voglia femminilmente molto bene a Sasshi. Si sta già facendo forza per quello che dovrà dirgli a breve, e per quello che lei stessa deve ingoiare. Quindi…

"Oh beh, tanto, per le persone, quel che più conta è restare in forma!" ("Hito ni ha, tassha naniyori yan!")
“Oh beh, tanto per le persone quel che più conta è restare in forma!”
(“Hito ni ha, tassha naniyori yan!“)

Auspicabilmente, i folletti veri dovrebbero cominciare e terminare esattamente su questo.


PARTE-4.1: tramando un ordito.

Mille anni fa, era l’epoca Heian. Ci troviamo tra Kyou-no-Miyako (poi si chiamerà Kyoto) e Naniwa (poi si chiamerà Osaka). L’astro nascente dell’onmyoudou, l’onmyouji di corte Abe-no-Seimei, si innamora perdutamente, e ricambiato, della giovane moglie di un signore che aveva richiesto i suoi servigi. Lei si chiama “Mune”, presumibilmente era assai pettoruta, mentre suo marito si chiama “Masayuki”. In ogni caso, la relazione illecita tra Abe e Mune finisce in un omicidio-suicidio della coppia nuziale. Distrutto dal dolore, col cadavere dell’amata tra le braccia, Abe-no-Seimei grida al cielo e poi, non pago dello sfogo, dà fondo a tutte le sue capacità tentando il proibito. La Cerimonia del Taizan Bukun. L’unico rito dell’onmyoudou che invece di fare mera divinazione avrebbe dovuto permettere la reale alterazione della linea spazio-temporale. La cerimonia riesce? Lui si ritrova mille anni nel futuro, dove lei (Mune) e lui (il marito, Masayuki) sono rinati come persone contemporanee dell’epoca ora corrente.

Cinquanta anni fa, era l’epoca Shouwa. Nel dopoguerra. Siamo a Osaka. Imamiya Mune è la figlia della famiglia che gestisce il bagno pubblico “Kame-no-Yu”, Asahina Masayuki è uno spiantato con la fissazione di fare il cuoco di cucina francese. Più nello specifico, siamo ad Abenobashi. Qui si sta costruendo, dove nel primo dopoguerra era sorto un mercato nero, un nuovo quartiere commerciale. Abe, con le sue competenze di onmyouji, è il progettista urbano – imposta il nascente quartiere commerciale con una bella pianta a scacchiera sui precetti del feng-sui, una cosa ortodossa. Ai quattro punti cardinali ci sono le quattro divinità cinesi elementali che presiedono al cancello degli inferi, gli animali divini Genbu (tartaruga), Suzaku (uccello), Byakko (tigre) e Seiryuu (drago). Come le città ideali, questo sarebbe stato il quartiere commerciale ideale! Solo che il destino si ripete: Masayuki ama Mune, Mune si innamora di Abe, Abe e Masayuki sarebbero amici. Finirebbe a coltellate, di nuovo con delle morti, se Abe non accettasse l’impotenza dell’uomo dinanzi ai disegni del destino per dileguarsi. Ma non prima di aver consumato il suo imperituro sentimento per Mune. Lei, rimastane gravida, partorirà un figlio senza padre, prenderà come marito un bamboccio locale, e aspetterà fino alla morte il ritorno del suo Abe restando alla cassa del Kame-no-Yu (la tartaruga sarebbe Genbu, qui). E dopo la morte incomincerà a inseguirlo, in ogni dimensione, con aspetto ringiovanito e col nome di “MuneMune”. Masayuki invece prenderà in moglie una “pizzettara” locale (in realtà una ragazza che gestiva un locale di horumon, una specialità di origine coreana quasi immangiabile, essenzialmente durelli alla piastra), riuscirà a fondare il suo ristorante francese, battezzato “Grill Pelican” (il pellicano sarebbe Suzaku, qui), ma non dimenticherà mai la sua bella Mune. Mentre Abe tornerà nella sua epoca Heian ma continuerà a “saltare” tra tempo e tempo, bighellonando tra dimensione e dimensione, come uno scapolo attempato. Uno “zietto” che va in giro sotto il nome di Yutas.

Nel 2000, è l’epoca contemporanea. Ormai ai giorni nostri, Imamiya Satoshi – detto Sasshi – è il nipote di quella Mune. Quindi in realtà è anche il nipote di Abe-no-Seimei. Asahina Arumi è la nipotina di Masayuki. Sono un duetto scoppiettante! Un’infanzia scanzonata passata insieme tra i vicoli del quartiere commerciale di Abenobashi. Ma la postmodernità incombe. Il quartiere viene demolito per la ristrutturazione urbana. Tutti vengono “sfollati”, e il figlio di Masayuki, il padre di Arumi, avendo ereditato il mestiere dal padre ha accettato un’offerta di lavoro in Hokkaido. Dove ci sono, tra le altre cose, le volpi nordiche. Fine del quartiere commerciale di Abenobashi, fine del duetto di Arumi-Sasshi (oltre alla rima, arumi-sasshi vuol dire “porta scorrevole d’alluminio” – tipo quelle ignifughe di sicurezza). Già le cose vanno male, ma si passa di male in peggio quando un incidente sul terrazzo di casa fa precipitare, e morire, l’anziano Masayuki.

Il nonno Masa muore. Nel primo episodio della serie.

Solo che il pubblico non lo sa. Non lo sa neppure Sasshi, né soprattutto Arumi.

Non lo sanno perché Sasshi, che ha l’onmyoudou letteralmente nelle vene, nell’istante stesso in cui assiste alla scena della morte del nonno Masa sotto gli occhi della nipotina Arumi, compie un “balzo dimensionale” in una dimensione fittizia. Partorita dalla sua mente, la mente di un bambino giapponese di sesta elementare del 2000 o giù di lì. Questa cosa avviene inconsciamente.

Lì per lì i due non sanno cosa sia successo. Si ritrovano in questa “versione alternativa tematizzata” del loro quartiere commerciale, e per uscirne scoprono di dover compiere una “onitaiji” (caccia al demone). Quando ci riescono, imparano una formula apposita per “balzare indietro” nella loro presunta dimensione reale.

Ma non ci riescono.

Non ci riescono, e non capiscono perché non ci riescano. E il perché è che il subconscio di Sasshi NON VUOLE riportare Arumi alla realtà dove il suo amato nonnino è morto. Quindi, pur credendo genuinamente di subire gli eventi, il duetto salta e risalta di episodio in episodio in tante diverse “versioni alternative e tematizzate” del loro amato quartiere commerciale. E siccome sono tutte frutto del subconscio di Sasshi, sono tutte tematizzazioni secondo le inclinazioni di un ragazzino giapponese un po’ otaku. In ogni diversa tematizzazione si ripete la “caccia al demone” per ripetere il salto dimensionale verso un’altra dimensione.

La versione da videogioco fantasy-rpg, la versione da animazione robotica, la versione da kung-fu movie, la versione giurassica, la versione da film americano hard boiled

< flashback su quel che accadde negli Anni ’50 >

la versione da gal-game

Gal-game“…?

Ovviamente questo per Arumi è troppo. Capitela, è una femminuccia che ha sopportato sin qui tutte le manie del suo amico maschietto. Quindi Arumi “dà di matto”, ovvero “si spezza”, e diventa lei stessa il demone di quella dimensione. Sasshi viene invece raggiunto da Yutas che, soppesando la realtà fittizia creata dal subconscio di Sasshi, pronuncia questa frase che mi sono scolpito nella testa:

“La libido debordante di un adolescente che conferisce pseudosostanzialità alle sue fantasie… è proprio ben fatta, questa realtà!”

Ora, se ci si riflette, questa è semplicemente la mentalità, la psicologia creativa delle “opere di fantasia” di qualsiasi narratore otaku. Per dire: da quello che scrive il Gioco dei Troni, a Miyazaki Hayao, è tutto così. Poco conta che uno si esalti con i draghi che stuprano le elfette albine (non so, sparo a caso, sono cliché del fantasy) e l’altro con le brave bimbe ingenue e pure con i mutandoni della nonna in vista, perché è la stessa cosa – ciascuno ha la sua libido, in senso lato, e la proietta nelle narrazioni che sono la metasostanzializzazione dell’universo delle proprie fantasie. Proprio come dice Yutas complimentandosi con Sasshi. Onanismo mentale, regni di escapismo, metanarrazioni. Pensate per esempio a Porco Rosso, con una diciassettenne (Fio) ingenua come una bimba di sei anni (Heidi), senza né ombra né macchia di malizia alcuna, che però è una progettista di idrovolanti nell’Italia dell’aviazione d’antan dei piloti di ventura e dei pirati galantuomini e bamboccioni che non ci sono mai stati. Certo, come no.

Comunque, mentre io divagavo indulgendo nel mio solito sproloquio, dalla tematizzazione in stile gal-game devastata dal demone-Arumi, Yutas s’è portato appresso Sasshi indietro nell’epoca Heian, nell’anno 1000, ma tutto autentico – niente trucco e niente inganno.

< flasback su quel che accadde al principio di tutto >

Tornato nel suo tempo, Yutas si rivela a Sasshi come Abe-no-Seimei, cioé un onmyouji vero. E incomincia, suo malgrado, ad avviare il suo futuro nipote alla strada dell’onmyou. E così Sasshi realizza che in realtà è lui stesso che sta tenendo Arumi lontana dalla realtà della morte di suo nonno. Quello che prima era inconscio diventa conscio nella mente del protagonista. Ma chiaramente tutto questo Sasshi ad Arumi non lo rivela affatto. Dinanzi alla lucida verità, vuole una volta di più proteggere l’amica dalla tragedia che l’attende nel mondo reale. Sempre in fuga fa in tempo a portare la sua Arumi, a cui vuole davvero tanto bene, prima in una versione del loro quartiere commerciale proprio da “parco dei divertimenti”. Qui si arriva al conflitto, e così la prossima versione sarà a tema “military otaku” (con una citazione dal primo episodio di Uchuu Senkan Yamato che non avevo colto, ma salvata lo stesso per grazia di fedeltà). Poi le cose sfuggono di mano e si finisce in una versione del quartiere commerciale che è un vero e proprio pastiche hollywoodiano. E da lì, la realtà è dietro l’angolo.

Lo storyboard qui, nell’ultimo episodio è di Anno Hideaki. Come nel finale televisivo di Evangelion, l’elemento metanarrativo, metacinematografico, si fa molto spiccato. Perché, come Anno sa bene, creare mondi narrativi è in fondo un atto di escapismo ben più radicale che fruire la narrativa come esponente del pubblico. Il regista si rifugia nella creazione della sua finzione ben più dello spettatore che la consuma. In questo senso, anche tutte le creazioni dimensionali “magiche” di Sasshi appaiono ora come puri atti di escapismo, metafore dell’atteggiamento di tutti gli otaku, creatori o consumatori, che si abbandonano a “mondi di finzione” rifuggendo le loro vite reali. E così Sasshi e Arumi si ritrovano in una saletta proiezioni da “prima copia” – dove la metafora di “cinema” come “rifugio dalla realtà” diventa fin troppo chiara, e dolorosa. Viene a riprenderli il serafico padre di Sasshi, che è chiaramente il figlio di Abe-no-Seimei e ovviamente sapeva tutto. Il nonno Masa è morto, datevi una mossa a rientrare, sbrigatevi che c’è il funerale. Sasshi prende la sua Arumi per mano e corre, corre via a perdifiato. La realtà letteralmente li insegue, gli sta alle calcagna come l’ondata delle fiamme di un incendio, e infatti INCENERISCE TUTTO INTORNO A LORO, e dove brucia la fantasia resta il quartiere commerciale reale, praticamente raso al suolo, ridotto in macerie. In extremis Sasshi lancia un ofuda, un talismano di onmyouji, che diventa un “circolo magico” dentro al quale lui e Arumi si riparano, un piccolo occhio di bue di fantasia salva e protetta in un mondo reale desolato. Su di loro ancora incombe il padre, che li raggiunge flemmatico come un golem, e afferando il “circolo magico” disposto a difesa dal figlio, lo apostrofa con un’altra frase che mi è rimasta scolpita nella testa:

“Questo qui non è che un giocattolo da bambini. Tu alla fine non sei che un bambino che vuole ancora e ancora restare a giocare anche se il sole è già tramontato.”

In fondo si vuole soltanto fare un altro giro in giostra, no? “Solo un altro. Dai, ancora uno. Poi torno a casa, lo so che è ora di cena. Dai, solo un’altra partita con i videogiochi. Solo un’altra ancora…

L’eterna moratoria.

Tutto vero. Solo che Sasshi ancora non ce la fa, e fugge ancora con Arumi, quasi in un atto isterico e disperato, ritrovandosi infine….

NEL BIANCO.

Nel bianco assoluto. Il foglio bianco dell’animatore che non sa cosa disegnare. Il vuoto della mente che ha esaurito la fantasia. La libertà assoluta è anche l’assoluta vacuità, come sempre nel tanto vituperato finale televisivo di Evangelion lo stesso Anno aveva già messo in scena.

Dove porto Arumi?” Sasshi ormai ha compreso proprio tutto, lo sa bene che sta creando realtà alternative e ridicole per proteggere lei dal ritorno a una realtà troppo brutta. Ma ha finito le idee. E qui ricompare MuneMune, ovvero Mune. Che è la nonna di Sasshi. Un’adulta.

Lei sta ancora inseguendo, di dimensione in dimensione, “quel gentiluomo”, ovvero il suo perduto amore Abe-no-Seimei, ovvero lo “zietto” Yutas.

Beh, tanto ormai che MuneMune fosse la sua defunta nonnina ringiovanita Sasshi l’aveva capito, e chiede direttamente a lei i motivi della sua missione d’inseguimento. Alla domanda lei crolla in lacrime, misera come un’adulta che piange dinanzi a un bambino: vorrei solo rivederlo ancora una volta, incontrarlo solo una volta. Ma ormai Sasshi è un onmyouji, non si scompone e dice “ci penso io!”. Per un attimo i ruoli dell’adulta e del bambino sembrano essersi invertiti. Ma no, è solo un’apparenza, perché Sasshi è ancora un bambino, e c’è ancora qualcosa che non ha capito, così la chiede a MuneMune tutto candino e ingenuo, mentre Arumi, che si trova alle sue spalle, è femmina e ha capito eccome, distoglie lo sguardo imbarazzata.

“Nonnina, ma incontrando un’altra volta quell’uomo, cos’è che vorresti fare?”

Al che, la cresciuta e già deceduta Mune(Mune) si riprende dalla sua crisi di pianto, scoppia a ridere e rimette le cose e i reciproci ruoli al loro posto: ci sono bambini e adulti. La giovane nonna rincuora e rassicura l’affranto nipote, congedando il piccolo Sasshi con un sorriso e con la raccomandazione di avere cura della sua graziosa ragazza.

Da cui…


PARTE-4.2: la risposta.

…con infinite, infinite grazie soprattutto a Gabriele Patriarca, Eva Padoan, e Federica De Bortoli e Massimo De Ambrosis e Dario Penne, e altri grandi interprerti che mi hanno persino sopportato. Grazie, grazie, grazie.


Qui c’è davvero tutto. Nelle parole, nei toni, nelle emozioni. La semplice, limpida, brillante risposta di Yamaga Hiroyuki.

(2018~2020)
Gualtiero ‘Shito’ Cannarsi

Poscritto del maggio 2022.

E ora sono trascorsi quasi vent’anni. Poco più di diciannove, per essere precisi. Però quest’anno, questo mese, è scomparso un mio caro amico, anche lui amava molto Oosaka. Lo conoscevo dai tardi Anni Novanta, ma l’avevo incontrato dal vivo una sola volta in vita mia, ancora alla fine degli Anni Novanta. Condividevamo una certa visione delle cose infantili che ci piacevano anche se ormai eravamo già grandi. Poi capitò, e credo che fosse il 2007 o giù di lì, che mi trovassi in un negozio di Oosaka che poi non ci fu più, mi pare si chiamasse HERO GANGU, ma non controllerò, ed era nel quartiere dedicato a quel genere di frivolezze che ancora seguivamo. Dinanzi a una delle innumerevoli vetrine, mi sentii chiamare da latere. Per nickname. Ovviamente non riconobbi, a tutta prima, l’italiano che mi aveva riconosciuto lì, dall’altra parte del mondo. Ed era lui. Com’è piccolo il mondo, quando un viaggio intercontinentale costa poche centinia di euro. Fu così che condividemmo anche un pezzetto di quella vacanza al risparmio. Da poi avremmo condiviso molte più cose, nel corso di una quindicina d’anni di corrispondenza continua, per iscritto e a viva voce. Abbiamo continuato a parlare così tanto, così spesso, di Oosaka. Dell’atmosfera di Oosaka. Del dialetto di Oosaka. Dei luoghi di Oosaka. Delle specialità di Oosaka. Degli autori di Oosaka. Della squadra di baseball di Oosaka. E di Abenobashi Mahoushoutengai, che è ambientato a Oosaka, certo. Ma adesso lui non c’è più, e con lui se n’è andata una delle rarissime persone con cui potessi parlare così di queste cose cosà. Pertanto, anche questo articolo lo considero retroattivamente dedicato a lui. Ciao, Cristian.

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