Hols & Hilda, ovvero: quando i cartoni animati divennero “anime”
Ultimo aggiornamento: 12 Febbraio 2022 da Amministratore
Voi lettori avete presente il film Taiyou no Ouji – Hols no Daibouken [Il Principe del Sole – La grande avventura di Hols]…? Potreste conoscerlo con un titolo italiano ignominioso che non citerò, perché qui si tratta di un caso un po’ peculiare, per me, quindi forse il vero punto è se lo abbiate visto di recente, ovvero abbastanza di recente per potersi dire una visione “da adulto”.
Non so se conosciate i fatti: Hols è (e resta) un film del ’68, realizzato in tempi di socialismo operaio. I tempi dell’ANPO, se si era in Giappone. Un Giappone che doveva ancora entrare nella postmodernità, si sarebbe detto poi, dato che Osaka70 è nel ’70 – il che ovvio – e in genere quella famosa esposizione universale si considera come la soglia oltre la quale il Giappone diviene postmoderno. Dunque Hols, Principe del Sole, uscì nelle sale cinematografiche nipponiche giusto due anni prima, e giusto l’anno prima dello sbarco dell’uomo (statunitense) sulla Luna. E fedele allo spirito del suo tempo, era stato un film davvero nato con una logica da socialismo operaio, con un senso di socialismo operaio. In un ambiente creativo come quello dell’animazione di quegli anni, ricolmo delle energie di giovani e volenterosi creatori, è facile dire che più che “idealismi socialisti” probabilmente si trattava di un’ispirazione da “socialismo ideale”.
Il regista è l’allora debuttante Takahata Isao, e nello staff spiccano i nomi del già veterano Mori Yasuji, dell’esperto Ootsuka Yasuo e del novellino Miyazaki Hayao. Maestri ed esordienti fianco a fianco, si voleva fare un film corale, e tutti i membri dello staff, i pochi veterani e i molti giovani furono chiamati a collaborare a livello ideativo. Anzi, il tema dichiarato della pellicola è proprio “l’unione delle persone”, ovvero l’aggregarsi e il disgregarsi delle comunità di persone, e questo contenuto portante dell’opera è senz’altro molto chiaro alla visione, fin dalla primissima scena. La produzione del film costò il doppio del suo budget iniziale, e da otto mesi richiese tre anni. Come dire: era la prima regia cinematografica di Takahata Isao, e il trend non sarebbe cambiato. Molto più tardi, quando l’ormai affermato Miyazaki Hayao, dopo il suo primo grande successo Majo no Takyuubin [la streghetta Kiki], volle pervicacemente produrre un nuovo lungometraggio di Takahata Isao, che sarebbe stato il capolavoro Omohide PoroPoro [ricordi a goccioloni], in un articolo ricordava che “proporre una regia cinematografica a Takahata è una cosa molto rischiosa, tant’è che i produttori di Hols ancora non riescono a trattenere una smorfia di rancore quando gli si fa il suo nome”. Era il 1990-91, comunque più di vent’anni dopo dall’avventura giovanile di Hols.
D’altro canto, credo che Takahata, come autore, non abbia mai sentito nessuna urgenza, nessuna necessità di dirigere alcun film. Questo era del tutto conforme al suo ormai ben noto nichilismo esistenziale. Suzuki Toshio racconta che sin dai temi di Heidi il più giovane (e molto più energico) collega Miyazaki passava di casa a tirarlo giù dal letto ogni mattina, trascinandolo in studio. E del retso, nel caso del suo ultimo capolavoro, quando gli chiesero di realizzare Kaguya-Hime no Monogatari [La Storia della Principessa Splendente], Takahata risose tipicamente (per lui) risposto: “perché dovrei farlo?”. Una cosa che per me è fantastica, ma questo sarebbe un altro tema.
Tornando quindi a Hols no Daibouken, c’è da dire quel che anche Francesco Prandoni scrive nel suo libro, ovvero che in sostanza quel film fu il definitivo e più brillante momento di distacco dello stile d’animazione giapponese dalla tradizione statunitense. Anche i contenuti sono assai distanti da quelli tipicamente infantili della Disney. Il giovane Takahata Isao, laureato in letteratura francese e vicino a quella cultura cinematografica, amava Prévert e Edith Piaf, e aveva una forte influenza intellettuale europeista.
A tal proposito, illuminante è il documentario Ootsuka Yasuo no Ugokasu Yorokobi [La gioia dell’animare di Ootsuka Yasuo]. Lì ci sono testimonianze preziosissime. In pratica, anche se il film era inteso come ‘fatto da tutti’, dopo un po’ Ootsuka Yasuo e Miyazaki Hayao si ritrovarono come tagliati fuori dalle riunioni creative. E non capivano perché. Soprattutto Miyazaki non capiva perché il giovane Takahata (insieme all’anziano Mori Yasuji) sprecassero tanto tempo (metraggio) sulle paturnie di Hilda, piuttosto che fare delle scene d’azione grandiosamente animate, dinamiche e avvincenti, come avrebbero invece voluto fare lui e Ootsuka (il combattimento col barracuda ha fatto storia). Takahata continuava a chiedere minutaggio aggiuntivo, la produzione glielo negava, l’uscita del film continuava a venire rimandata, tant’è che poi alcune scene particolarmente movimentate vennero rese con sequenze di immagini statiche, cosa che a Miyazaki deve essere costata tantissimo: lui ha sempre criticato Tezuka per ciò che ha fatto in animazione, ovvero dimostrare che si potevano vendere anche dei “cartoni non animati”, quelli per cui Tomino Yoshiyuki, altro regista d’animazione “non disegnatore”, avrebbe poi detto: “capii che anche mostrando disegni statici in televisione, il tempo passava lo stesso, e la storia si raccontava lo stesso”. Quasi un ritorno ai kamishibai del passato. E chi ha visto Ponpoko forse mi capirà meglio degli altri.
In ogni caso, nel documentario a lui dedicato Ootsuka Yasuo racconta che quando vide poi il film completato si mise a piangere, e accettò che lui “non avrebbe mai potuto essere un regista, ma che doveva limitarsi a fare animazioni, a fare quelle cose divertenti che piacevano a lui”. Per la cronaca, si sa che la regia di Cagliostro no Shiro era stata dapprima offerta a Ootsuka, che rifiutò dicendo “non sono capace di dirigere”, e che passò la cosa a Miyazaki.
Perché evidentemente Miyazaki Hayao, che era rimasto colpito da Hols tanto quanto Ootsuka Yasuo, forse non accettò il fatto che lui era un po’ un bambinone che disegnava, e Takahata era un intellettuale che dirigeva, credo. Miyazaki era del resto molto giovane, e probabilmente anche molto ambizioso. Sempre iperattivo, febbrile. Ootsuka dirà: “Non fosse stato per Takahata, Miyazaki avrebbe speso tutta la vita a fare cose infantili come i cartoni animati” – sic. Per contro, lo stesso Miyazaki – filmato, nelle sue proprie parole – dice proprio: “Pakusan [Takahata] non stava più facendo i cartoni animati… stava facendo Prévert, stava facendo Edith Piaf!”. Eccerto.
Sappiamo che dopo Hols il buon Miyazaki Hayao passerà lunghi anni a ‘disegnare per Takahata’. Tipo il braccio e la mente. È quasi spaventoso, ma quando Ootsuka poi rivedrà Miyazaki dopo quel periodo, ebbene Ootsuka dirà che “Miyazaki era cambiato” e che “aveva disegnato una mole impressionate di disegni”. Ora, se l’avessi detto io, non è che ci sarebbe da sorprendersi. Io non so disegnare neppure l’omino col pallino per testa e lineette per corpo. Ma Ootsuka Yasuo! In questo Ootsuka assomiglia piuttosto a Tezuka. Quindi, Se Ootsuka dice “aveva disegnato una mole impressionante di disegni”, se ne è rimasto impressionato proprio lui, da quella mole, allora beh… c’è da rifletterci. Di lì a breve Miyazaki avrebbe iniziato con la sua prima regia, la regia di Mirai Shounen Conan [Conan il Ragazzo del Futuro].
Ora, il punto però è Hilda.
Sappiamo che Clarisse de Cagliostro è considerata non solo il prototipo delle eroine miyazakiane, ma anche la capostipite del lolicon prima e del moezoku dopo.
Ebbene, se penso a Hilda, dico che Hilda distrugge da sola tutto l’otakuzoku, il lolicon e il moe.
Hilda è come una figura femminile preraffaelita. In lei sono l’afflato vitalistico e il soffio mortifero, entrambi. Hilda è lo Shishigami. Hilda è amore e odio. Senza dissociarli. E senza dissociarsi, ancora: Hilda è turbata, certo, ma non è proprio bipolare, eh! È solo una femmina divisa tra due strade, tra la condanna alla solitudine e la speranza della salvezza. Non è una rori, ma non è neppure una donna cresciuta, vissuta e imbruttita (questa disgiunzione è il compromesso Miyazakiano), sta semplicemente lì in mezzo. Hilda è il terrore e la maturità maschile del capire che nella femminilità quei due antipodi non sono disgiunti.
A volte penso che Miyazaki abbia continuato per tutta la sua vita d’artista a cercare di capire Hilda. Me lo immagino, come un bimbo: “ma Hilda è buona o cattiva? Hilda è come lo scoiattolino o come il gufo? Com’è la vera Hilda? È una brava bimba che – poverina – era finita a fare la cattiva, o è una cattiva che si redime?”. Del resto Miyasan ha sempre fatto ‘coppie’ di questo tipo di femminilità disgiunta; e l’ha disgiunta nell’età, santificando le bimbe pure e compatendo le donne sporcate.
In questa ricerca d’analisi, bisogna partire da Sabaku no Tami [Il Popolo del Deserto], primo manga di Hayao Miyazaki. La fanciulla di Sabaku no Tami è Hilda. Nel senso che è uguale a Hilda. Alle vesti ainu si sostituiscono altre vesti ‘etniche’, ma è sostanzialmente uguale. Poi c’è la ragazza di Shuna no Tabi [Il Viaggio di Shuna], che è Therru (del libro), ma è evidentemente ancora Hilda. Poi c’è Nausicaä, che è un miscuglio tra le due e incomincia ad essere sdoppiata con Kshana. Nausicaä dà di matto e ammazza i soldati quando vede il padre assassinato, poi crolla e ha paura di sé stessa. Ovvero, Nausicaä non è più Hilda in toto: è un pezzo di Hilda. Nausicaä è pura, ma l’odio la porta alla cattiveria, e lei lo teme. Kshana è l’altro pezzo di Hilda: lei è cattiva, perché deve esserlo. Non può non esserlo. E poi scopri che proprio lei ha sofferto più di tutti.
Anno Hideaki, notoriamente, adorava Kshana. E non solo perché aveva curato la scena del SoldatoTitano. Anno Hideaki adorava la Kshana del manga, soprattutto, tanto che avrebbe voluto portare in animazione la sua storia, e non potendolo fare ha fatto Asuka Langley, che ha la stessa infanzia traumatica di Kshana. Ma a pensarci, ancor prima di questo Nadia era in qualche modo Hilda. Ovvero, Nadia è una Lana che stava già diventando Monsly, è una Nausicaä che stava diventando Kshana. Quando a Tartessos tenta il suicidio, è una crisi ben più profonda di quella di Nausicaä, che si spaventa del sé, ma sa di essere buona. Nadia invece teme il suo sangue: “Usando il potere della Blue Water diventerò un’assassina come mio fratello e mio padre!”. Ci sono vari detti popolari, in giapponese: “Non si può sconfiggere il sangue”, o “Il cucciolo di una rana è una rana” – anche se a tutta prima il girino pure parrebbe diverso.
Dunque, dicevo: Hilda, Kshana, Nadia… ma per Miyazaki, arrivato poi ai tempi di Sheeta, era già tutto molto annacquato. Di Sheeta non si sa praticamente niente: “Sono carina, che altro?”, sembra dire ad ogni sguardo. Ha un momento di timore per la sua ‘eredità’ giusto sulla coffa della Tiger Moth, che paura le parole di distruzione, gli incantesimi cattivi, ma lì finisce. Per il resto è la rori che cucina per i pirati e tutti l’adorano. Da lì, tralasciando la parentesi del realismo psicologico di Kiki (che secondo me fu una creazione in qualche modo influenzata da Takahata, oltre che basata su un soggetto originale femminile), il passo ulteriore poteva essere solo Fio, che progetta anche gli aeroplani a diciassette anni, ma poi si spoglia come Heidi, tanto è ingenua (solo che lo spogliarsi delle ‘vesti della modernità’ che fanno Heidi prima, e Shoukichi poi, e Kaguya poi ancora ha tutto un preciso senso che quello di Fio non ha, lì sulla spiaggia del covo di Porco Rosso è solo fanservice lolicon).
Takahata, invece, pone sempre grande significato nei suoi personaggi, in ogni cenno di caratterizzazione. Non c’è fanservice, in loro, e mai neppure mera funzionalità alla trama. E così vediamo già Hilda combattuta tra due diversi animi, entrambi suoi. Da un lato l’attitudine femminile a sedurre e a ‘corrompere’ gli animi di tutti gli uomini del villaggio, che al suono della sua cetra e alla sua melodiosa voce di cantrice abbandonano il lavoro per ascoltarla, una natura maligna in senso proprio che la consuma e la porta a voler desiderare di essere ancor più maligna, abbandonandosi a questo suo lato (e così lei invidia, odia, tradisce, e complotta, o meglio femminilmente ‘si presta’ al complotto di un uomo anche pateticamente stupido). A contraltare di tutto ciò, dall’altro e più intimo lato di lei, è un ancor più forte, profondo e naturale istinto materno, che la induce invece a voler salvare Mauni, la bambina piccola che continuava a volerla privare della sua solitudine. Vorrebbe salvare solo lei, ma no, lo scoiattolino le dice: “così poi lei sarebbe tutta sola, e diventerebbe proprio come te, un’altra Hilda”. Ahio! E poi ancora Hilda arriva a scegliere persino la morte, il lasciarsi morire per salvare il piccolo Flep. Ma come si può guardare la scena di lei che si lascia trafiggere dai venti gelidi, come lupi argentati, senza tremare? Come si potrebbe?
D’altro canto, Takahata ai tempi di Hotaru no Haka [La Tomba delle Lucciole] disse schiettamente: “l’animazione è una specie di surrealismo”, uno “pseudosurrealismo”.
E come non lo si capirebbe, guardando la rappresentazione del Bosco degli Smarrimenti, in cui finisce Hols? Il mondo visionario dei suoi dubbi, della sua confusione. E ancora, che cosa può riforgiare lo Spadone del Sole? Solo il sentimento e lo sforzo congiunto di tutto il villaggio, ovvero “l’unione delle persone”, la negazione della solitudine di Hilda, e di suo ‘fratello’ Grunwald. Certo la connotazione simbolica di questi elementi, di queste scene, è molto forte. Ma visivamente c’è anche tanto realismo, com’è tipico di Takahata. E credo che sommando “realismo” e “simbolismo” si ottenga un “realismo simbolico” che in effetti altro non è che “surrealismo”, ovvero un realismo che col suo valore simbolico trascende il suo essere una mera rappresentazione grafica della realtà.
A pensarci, parlando poi soprattutto di narrativa per immagini in movimento, ovvero cinematografica, si potrebbe dire lo stesso anche per il neorealismo, che in fondo è proprio verismo simbolista. E del resto Takahata era dichiaratamente un estimatore del cinema neorealista, salvo averlo sinanco estremizzato nelle sue componenti simboliche e surrealiste sfruttando le potenzialità del mezzo espressivo “animazione”, ma pure scevrandolo da ogni componente di violento utilizzo dell’immagine umana reale, del vero umano, perché come scriveva Magritte: “questa non è una pipa”, “questa non è una mela”… e “questa non è una persona”, ma solo un suo disegno. Uno pseudosurrealismo, dunque, che con l’animazione è intrinseco anche quando non ricercato, infatti. E fin da Hols, anzi forse proprio nell’impetuosa energia dietro a un’opera giovanile come Hols, trovo che il risultato sia davvero incredibile. Perché i movimenti di Hilda fanno paura. O il modo in cui lei parla. I suoi sorrisi. I suoi sguardi fissi. Le sue risatine. Il modo in cui si aggiusta una ciocca di capelli dietro all’orecchio. Mi fanno tremare. E mi fanno pensare che anche lo straordinario animatore e poi regista Miyazaki Hayao non ha mai animato una simile impressione in tutta la sua straordinaria vita artistica. Hilda mi fa tremare forse perché è simbolica realtà femminea.
L’unica cosa che mi viene in mente, come Hilda, è la Salomè. Ma non esattamente la Salomè di Wilde. La Salomè per come la spiega Aby Warburg. Lui intendeva la Salomè come “una ninfa”, così come lo erano per lui le prostitute dell’impressionismo, come lo sarebbe poi stato Marilyn Monroe nella pop-art, e nella sua epoca. La ninfa è il movimento, il tempo, è lo spirito femminile.
Le ninfe che sbranano Orpheus che si rifiutava a loro, dopo la morte di Eurydike, perché Orpheus non accettava il tempo, la fine, la perdita. Non accettava l’impermanenza della vita e dei suoi significati. L’impermanenza del trauma del lutto. La ninfa è fanciulla magica e strega. Ma al tempo stesso, in contemporanea. Non è neppure che l’una diventi l’altra, crescendo: in questo Urobuchi è come Miyazaki, così è ancora troppo comodo. La ninfa è entrambe, contemporaneamente e alternativamente. Deve fare il bene e il male, del sé e del prossimo, gioire e soffrire, far gioire e far soffrire, perché in questo è quella perturbazione che è la vita stessa, il tempo, il cui concetto implica e nasce dalla percezione che c’è un prima e un dopo, un inizio e una fine. La ninfa è il turbamento stesso. I cerchi concentrici che si generano nello stagno quando ci si butta dentro un sasso. Le increspature sulla superficie dell’acqua (nel mare di Dirac). L’antientropia. La transistasi.
Credo fosse per questo che Dante Gabriel Rossetti disegnava sempre queste donne che facevano paura nella loro altera, distaccata, pure eterea bellezza. La dama col melograno è Persephone. La Maria che Dante dipinge in Ecce Ancilla Domini, modellata in realtà sulla figura della sorellina Christina Georgina, potrebbe essere Hilda, davvero. Altro che rori, altro che Nahoko per la quale Jirou costruisce aeroplanini di carta recitando proprio Christina Georgina Rossetti. Ma a Miyasan è piaciuta l’Ophelia di Millais, invece, perché elaborare quel tipo di femminilità idealisticamente radicale è molto più semplice. Nonostante tutto, io credo che Miyazaki non avesse ancora capito davvero, nel senso di accettato, la tremenda semplicità di Hilda. Come non riusciva ad accettare La tomba delle lucciole, e ci si arrabbiava: “Perché gli spiriti dei due bambini sono pacificati, all’inizio, che è dopo la loro fine? Perché non sono invece degli spiriti vendicativi?”, diceva tutto rabbioso.
Penso che lui, per quanto ormai anziano, abbia sempre avuto e forse ancora abbia una psiche maschile idealista in quel modo infantile, che guarda all’assoluto e non può che negare tutta questa umana e quindi mediocre realtà. Ovvero, benché di “generazione Zero” (polisemia intesa), credo sia tutto sommato un otaku anche lui, per quanto veementemente lo neghi. E quindi, proprio come me, un rifiuto dell’impermanenza. Nel senso ambivalente che lui l’impermanenza la rifiuta, ma anche che è ciò che l’impermanenza stessa lascia come uno scarto. E l’impermanenza, il movimento, la transistasi, il metabolismo, non è altro che la vita stessa. Rifiutando la vita, si diventa un rifiuto della vita. Tipo un maiale antropomorfo. O uno stregone marino stralunato. Tipo.
Senza dubbio l’ambivalenza di Hilda continua a essere agghiacciante (termine scelto non a caso) ancora a trent’anni di distanza dal suo debutto. Era la prima rappresentazione cinematografica del giovane Takahata Isao. Ma la vague (termine scelto non a caso) da verismo pseudosurrealista, e simbolista in questo, dell’autore c’è già tutta. L’ambivalenza di Hilda è rappresentazione pseudosurrelista della femminilità, in un film animato giapponese, nel 1968.
Siamo sempre qui. Da qui è incominciata l’animazione giapponese per quello che sarebbe poi stata: la nascita di quella tensione drammatica nella narrativa animata rivolta ai più giovani sì, ma non al loro essere “soltanto” dei bambini. Forse è anche quello che ha permesso all’animazione giapponese di essere “abusata”, a cominciare dai tempi dell’anime boom, perché trattandosi comunque di intrattenimento, e quindi di un bene di consumo, ben presto da una narrativa con un contenuto educativo sarebbe diventata la materializzazione del “desiderio di adultità” di adolescenti in moratoria di crescita. Invece che uno sprone alla conquista di una corretta adultità, la rappresentazione di una pseudo-adultità fittizia, narrativa. Una meta-adultità proiettiva e pantomimica. Sublimata nella fruizione narrativa stessa.
Ma forse, con il dilagare del benessere diffuso della società del consumismo diffuso, era inevitabile. Forse era solo una questione di tempo. Del resto vediamo che la stessa strada è stata più e più seguita in ambiti e maniere ben più diffuse e dilaganti e generaliste di quello che è, e soprattutto era e fu, l’otakuzoku. E a rifletterci, anche se come si è detto l’estrazione di Taiyou no Ouji – Hols no Daibouken sembra essere d’ispirazione fortemente socialistica, mi viene da pensare che comunque il fulcro di tutto, in modo tipicamente giapponese, sia sempre tra la debolezza della solitudine e la forza dell’unione delle genti. Del resto anche l’interesse etnografico del giovane e sempre romantico Miyazaki viene probabilmente da Takahata, come ogni cosa di realmente culturale e non infantile. E così alla fine la cosa più tragica del film di Hols è che Grunwald è un demone perché è solo. Anche il fatto che abbia preso una probabile orfana, forse da lui stesso risparmiata, come “sorellina”, e che chieda a Hols di fargli da “fratellino”, non è che solitudine. Del resto, Hilda stava facendo lo stesso con Mauni. È davvero un grande tema del passaggio da modernità a postmodernità, ovvero da socialità e asocialità, tra dipendenza e indipendenza, tra comunità e individualismo umano.
Gualtiero ‘Shito’ Cannarsi