Echi di un benessere lontano: nascita, morte e rinascita del City Pop
Ultimo aggiornamento: 6 Settembre 2020 da Amministratore
È il 22 Settembre del 1985 all’hotel Plaza di New York e i ministri dell’economia di Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia e Regno Unito hanno da poco firmato un accordo che rimarrà nella storia come “l’accordo del Plaza”. Gli Stati Uniti del secondo mandato di Reagan fanno un deciso passo indietro rispetto alla dottrina liberista che li aveva guidati fino a quel momento, cedendo ad un pesante lobbysmo dei produttori americani che chiedevano a gran voce un deprezzamento del dollaro per contrastare soprattutto la forte importazione di prodotti nipponici: le automobili, in primo luogo; ma anche l’hi-tec e l’informatica. Quell’accordo sancì l’importanza del Giappone negli equilibri economici mondiali e ne certificò lo status di potenza economica.
Cinque anni prima, nel 1980, Tatsuro Yamashita era immerso nelle acque del mare di Saipan per lo spot delle audiocassette Maxwell, proprio uno di quei prodotti hi-tec che il Giappone stava vendendo in tutto il mondo. Quello spot pubblicizzava Ride on Time, album che quell’anno Yamashita si apprestava a pubblicare e che per molti rappresenta l’inizio del City Pop, il genere musicale che meglio ha rappresentato quel periodo di opulenza consumistica giapponese, quando il paese del Sol Levante era la potenza economica che tutte le cancellerie del mondo temevano.
Il Giappone si lasciava alle spalle anni di sacrifici compiuti per riacquisire quello status di potenza mondiale che la guerra gli aveva fatto drammaticamente perdere e i giapponesi, in particolar modo quelli più giovani, si affacciavano al nuovo decennio, quello degli anni ottanta, con l’aspirazione di un sempre maggior benessere. La musica, come spesso accade, riuscì a sintonizzarsi con le tendenze recondite della società.
La musica giapponese, specialmente negli anni ’70, aveva già in sé due degli elementi che in seguito furono cruciali per la nascita del City Pop: le influenze occidentali ed un cambiamento nelle tematiche dei testi: da quelle sociali a quelle personali. Le influenze musicali occidentali e in special modo americane erano presenti già da tempo in Giappone; basti solo pensare a quanto un totem della musica nipponica, Kyū Sakamoto, si fosse ispirato ad Elvis e come dopo il tour dei Beatles del 1966 in Giappone si creò un genere, il “group sound”, che imitava i fab four di Liverpool. La “new music” di inizio anni ’70, rappresentata da cantautori ancora oggi amatissimi come Yumi Matsutoya e Yosui Inoue , fu invece la prima a spostare l’oggetto delle canzoni da tematiche sociali e comunitarie a temi più personali come quelli sentimentali. Questa tendenza continuò nella metà e nella fine del decennio anche con gruppi rock come Happy End, Southern all stars e Sugar Babe, che continuarono a distaccare la musica nipponica dagli schemi fino a quel momento seguiti per portarla su nuove strade.
Proprio da questi gruppi provenivano due degli artisti che maggiormente hanno contribuito a definire i tratti distintivi del genere. Dagli Sugar Babe il già citato Tatsuro Yamashita e dagli Happy End Haruomi Hosono (futuro bassista della YMO). Entrambi gli artisti pubblicarono album solisti che prendevano a piene mani ispirazione dalla musica americana: Yamashita dal soul e il funk, Hosono da sonorità con sfumature esotiche e tropicali. Questi album non furono dei grandi successi, anzi Yamashita se la passava piuttosto male come vendite, ma contribuirono a creare delle coordinate stilistiche in cui altri artisti potevano ritrovarsi.
Un altro fattore che fu fondamentale per l’affermazione del genere viene da una sfera non prettamente musicale. La Sony/CBS, joint venture nippo-americana, comprese bene il cambiamento che si stava per profilare nella società giapponese: vide come la ricerca del benessere e l’affermazione consumistica stesse prendendo piede ed ebbe l’idea di produrre essa stessa la musica che un potenziale mercato di giovani ascoltatori poteva sentire grazie ai walkman, alle cuffie e agli stereo da macchina che proprio loro vendevano. Secondo molti, il nome City Pop è proprio dovuto all’ascolto di questa musica in macchina mentre si girava nella metropoli. I primi album prodotti furono compilation dai nomi già di per sé indicativi, “New York” “Pacific” “The aegean sea“. Il successo di questi album e soprattutto la presenza alle spalle di etichette pronte a produrre questo nuovo tipo di musica fece sì che arrivasse il momento di artisti che non riuscivano a sfondare, come Yamashita. Il già citato “Ride on Time” nel 1980, a “Long Vacation” di Eiichi Otaki (guarda caso sempre ex componente degli Happy End) e “Reflections” di Akira Terao nel 1981 furono degli enormi successi e possono essere considerati tra i più grandi album del City Pop.
Il City Pop fu quindi parte di un’evoluzione musicale iniziata già anni prima e che venne spinta ulteriormente in avanti. Le influenze occidentali divennero sempre più marcate e compresero generi come la dance, il soul, il funk, il jazz fusion e l’AOR, che costituiscono le fondamenta musicali su cui il City Pop è costruito. Ma non ci fu solo una riproposizione dello stile dei pezzi occidentali: il tutto venne riletto con una sensibilità tipicamente giapponese per la melodia, che riuscì a dare un patina di pop splendente al prodotto finale , unita ad una grande ricchezza e pulizia negli arrangiamenti.
Per quanto riguarda i testi, che sempre più spesso utilizzavano l’inglese nei titoli e nei ritornelli, anche in questo caso continuò la tendenza dello spostamento dei contenuti verso la sfera del personale. Nel City Pop si cantava entusiasticamente la vita nella grande metropoli. Era la musica di una generazione giovane, che si trovava a vivere in una società guidata dalla ricerca del benessere materiale e con un portafoglio sempre più pesante; e in una vita vissuta per il lavoro, c’era bisogno di una musica che potesse accompagnare i momenti del tempo libero e che riverberasse quel desiderio di lusso. Non mancarono naturalmente le tematiche sentimentali/relazionali; le atmosfere notturne, sia musicalmente che nei testi, sono parte integrante del City Pop, così come il mito dell’estate, con la sua coolness o con suggestioni tropicali da viaggio alle Hawaii o a Guam.
Il City Pop, secondo il parere di chi scrive, non è un vero e proprio nuovo genere, ma l’utilizzo di vari generi stranieri riletti con una sensibilità giapponese in un determinato momento della storia nipponica ben legato a fattori sociali ed economici. Forse sarebbe più corretto chiamarlo una “scena musicale”, un gruppo di artisti che si è andato ad adeguare a dei canoni ben precisi, ognuno secondo le sue sensibilità artistiche, che spesso hanno collaborato tra di loro o alla produzione o suonando in dischi altrui. Spesso il confine si è allargato anche ad altri artisti, solitamente già affermati, come Yumi Matsutoya, che si sono addentrati in sonorità affini al City Pop senza esserne però parte organica. Questa varietà di influenze e di generi che compone l’ossatura del City Pop si può comprendere solamente ascoltando gli album di quel periodo. Si può passare infatti dal funk di Tatsuro Yamashita ad un pezzo dance come “I can stop the lonliness” di Anri, allo stile cantautoriale di Taeko Onhuki, o a sonorità più vicine al Jazz-fusion come quelle di Toshiki Tadomatsu, fino a sfiorare l’idol pop come nel caso di Momoko Kikuchi. Quello che lega questi artisti è proprio l’essersi conformati ad uno stile che il giornalista musicale giapponese Yutaka Kimura ha ben definito come “una musica pop metropolitana, per chi ha uno stile di vita metropolitano”
Curiosamente per raccontare la fine del City Pop dobbiamo tornare all’inizio, all’accordo del Plaza. Infatti la conseguenza di quell’accordo fu che il governo giapponese iniziò a stampare moneta per combattere lo Yen forte e difendere la sua economia basta sulle esportazioni. Questo fu uno dei fattori scatenanti dello scoppio della bolla speculativa del 1991, che portò il Giappone in piena crisi e mise fine al suo miracolo economico e, per quello che ci riguarda, al City Pop , che perso l’humus sociale ed economico su cui era prosperato svanì tra i ricordi di che aveva vissuto quel periodo.
Un’inaspettata resurrezione
O almeno è quello che è accaduto per circa 25 anni, perché nel luglio del 2017 l’utente di Youtube Plastic Lover ricarica sulla piattaforma una canzone da poco fatta rimuovere, Plastic Love di Mariya Takeuchi. Un pezzo neanche tra i più famosi dell’artista e che ai tempi della sua pubblicazione raggiunse solo l’85° posto della classifica Oricon. E quel video, almeno fino alla sua rimozione nel dicembre del 2018, è arrivato a 24 milioni di visualizzazioni, diventando una presenza fissa nei video consigliati di youtube e ridando alla Takeuchi e al City Pop in generale una fama postuma che nessuno poteva immaginarsi; il volto ormai iconico di Mariya (che in realtà viene da una copertina di un altro singolo, Sweetest Music) diviene un meme; svariate cover e gruppi come i Gorillaz che l’apprezzano pubblicamente; migliaia di persone in tutto il mondo scoprono un genere che normalmente a loro sarebbe rimasto sconosciuto.
Che a causare tutto questo sia stata la Takeuchi, moglie e partner musicale proprio di Tatsuro Yamashita, che del City Pop è stato il padre e forse l’interprete più genuino, possiamo considerarlo un segno del destino. Ho volutamente omesso di nominare Mariya Takeuchi fino ad ora nonostante sia stata una delle interpreti migliori di quel genere proprio perché credo che se qualcuno stia leggendo questo articolo ha probabilmente iniziato quello che è chiamato il “plastic journey”: la ricerca compulsiva di canzoni ed informazione su un genere che ancora oggi è in grado di affascinarci. Ho fatto questo scelta per far comprendere come sia nato e quale fenomeno sia stato il City Pop mettendoci nei panni dei giapponesi di quegli anni, senza tirare in ballo, almeno sinora, l’incredibile successo a 30 anni di distanza della Takeuchi.
Ma facciamo un passo indietro e chiediamoci il perché di questo fascino ad oggi così vivo e di come una canzone giapponese del 1984, neanche troppo famosa, sia potuta arrivare alle orecchie occidentali. La risposta a questi quesiti si trova nell’utilizzo delle canzoni City Pop, spesso senza alcun credito agli autori originali, in due generi musicali nati a cavallo degli anni ’10 del nuovo millennio, la vaporwave e il future funk. La vaporwave tramite il rallentamento di brani degli anni ’80 e ’90 e con un’estetica composta di vecchi hardware, prodotti consumistici e statue greche classiche filtrate con effetti VHS , ha espresso secondo alcuni una critica a quel mondo iperconsumista che è crollato con la crisi del 2008 lasciando le generazioni più giovani con in mano un mucchio di aspettative distrutte .
Pensando al periodo di benessere che il City Pop ha rappresentato non stupisce che si possa essere rivelata una musica ottimale per l’utilizzo degli artisti vaporwave. Il future funk di contro non condivide l’aspetto di critica della vaporwave e le canzoni in questo caso vengono invece velocizzate e sono accompagnate da brevi estratti di pochissimi secondi di anime degli anni ’80 ripetuti in loop. Sembra voler sottolineare un aspetto più nostalgico verso un periodo a cui si guarda con ammirazione. In questo caso il tono uptempo e solare del City Pop si è dimostrato ugualmente idoneo per gli artisti di questa corrente musicale. In tal senso credo siano significative le parole di Van Paugam, l’utente di youtube che ospita sul suo canale una radio h24 di City Pop, al sito italiano Takamori:
“Facevo mix di future funk e vaporwave, quindi senza saperlo stavo già ascoltando City Pop. […] Di conseguenza, quando ho iniziato a scoprire quei samples, ho realizzato che la musica originale aveva un carisma e un’autenticità superiori e mi sembravano migliori delle canzoni che le avevano campionate. È difficile tornare indietro una volta che hai sentito l’originale. Credo che la cosa che mi attira al genere sia che la musica suona così familiare, per via delle influenze che ci riconosco, ma allo stesso tempo è un mix talmente unico di quelle stesse influenze che trasmette uno strano senso di nostalgia per un tempo e un luogo in cui non siamo potuti crescere; può essere di conforto, forse perché come umani bramiamo una fuga dalla realtà che la musica può offrire”
Il City pop non è scoppiato nella bolla come l’economia e la società che lo hanno creato, ma ha saputo rinascere grazie alle opportunità della rete e soprattutto al suo mood e al suo stile che ancora oggi ci riesce ad affascinare. Ma oggi il fascino è quello del tempo perduto contrapposto a quello che viviamo, non è più il fascino del tempo presente di un colletto bianco che sfrecciava tra le luci di Tokyo ascoltando Sparkle di Tatsuro Yamashita.
Per Approfondire:
- https://blog.zzounds.com/2015/10/21/musical-almanac-japans-city-pop/#prettyPhoto
- http://www.ondarock.it/speciali/citypop.htm
- https://www.japantimes.co.jp/culture/2018/11/17/music/mariya-takeuchi-pop-genius-behind-2018s-surprise-online-smash-hit-japan/#.XCOeGVVKiUk
Godai